Conto fino a tre: regole e disobbedienza nei bambini
Bambini che fanno i capricci, non ubbidiscono e non rispettano le regole. Come farsi ascoltare e rispettare dai figli ed imporre le regole in modo efficace.
Sempre più spesso, come clinici, ci troviamo di fronte a genitori preoccupati perché i loro bambini, di qualsiasi età, non rispettano le regole e rendono, talvolta, la vita familiare un inferno in terra.
Parliamo di situazioni molto diverse tra loro, ma con un comune denominatore: il bambino non sembra avere la maturità psicologica ed emotiva per adeguare i propri comportamenti ad un contesto plurale, in cui entrano in gioco anche le esigenze degli altri. Non riconosce l’autorità dei genitori, li sfida continuamente, vuole fare sempre di testa sua.
Genitori sotto scacco
A volte, il bambino si comporta “bene” e le giornate scorrono relativamente serene, altre volte è capriccioso, intrattabile, e con i suoi comportamenti inadeguati e provocatori riesce a tenere in scacco tutta la famiglia.
Ci sono bambini che danno il peggio di sé in casa, e fuori riescono a comportarsi abbastanza bene, riconoscono l’autorità di insegnanti o altri adulti, sicché il loro funzionamento non risulta particolarmente compromesso e la problematica sembra limitata, per il momento, al rapporto con le figure genitoriali.
Ci sono altri bambini, invece, che hanno problemi più strutturati di autocontrollo, opposizione e mancato riconoscimento dell’autorità, tanto che spesso vengono segnalati dalla scuola, che rimanda alle famiglie l’inadeguatezza dei loro comportamenti. Spesso, questi bambini “fuori controllo” vengono etichettati come iperattivi, disattenti, con problemi di apprendimento, mentre la questione più spinosa sta nell’assenza di limiti interiorizzati.
Senza limiti
La nostra attenzione deve andare sui limiti interiorizzati, perché fin da subito il bambino inizia a fare propri e mettere dentro i limiti che gli vengono posti dagli adulti, non solo per produrre comportamenti adeguati (legittimi, gentili, ecc), in contrapposizione a ciò che è inadeguato (pericoloso, maleducato, violento), ma anche per strutturare il proprio mondo interno, che si basa appunto sui limiti.
Una mente che funziona si appoggia sui limiti: dentro/fuori, noi/gli altri, ora/dopo, sì/no, desideri/restrizioni, fantasia/realtà. I limiti interiorizzati sono le redini con cui teniamo a bada gli istinti, le pulsioni, non solo per non travolgere gli altri, ma per non venirne noi stessi travolti.
“Tutto e subito” è il nemico di ogni accadimento psichico rilevante: dall’attesa che alimenta il desiderio, all’autocontrollo che permette l’azione finalizzata, alla concentrazione che garantisce gli apprendimenti. Nulla, nella psiche, può avvenire senza limiti, se non la catastrofe (disturbi affettivi, del comportamento, del pensiero, ecc).
Il bambino che non sa gestire gli impulsi e le emozioni, perché il processo di apprendimento e interiorizzazione del limite (esterno e interno) non sta avanzando nel modo giusto, non riesce nemmeno a valutare le esigenze degli altri, aspettare il suo turno, stare fermo, prestare attenzione, perché è travolto da un mondo interno di pulsioni poco addomesticate. Alcuni bambini, poi, possono essere deliberatamente provocatori, oppositivi, aggressivi. Questo denuncia un serio problema di strutturazione della personalità infantile, che va da subito colto e arginato.
Il bambino che, invece, riesce a comportarsi bene a scuola, a sport, a casa degli amichetti, ma si ribella ad ogni regola in famiglia, è più evoluto dal punto di vista del funzionamento psichico, perché riconosce il concetto di limite e di autorità, ma per qualche ragione è spinto a sfidare con rabbia i genitori.
Su questo, con la famiglia, va fatta una profonda riflessione, perché anche se il comportamento in altri contesti può essere adeguato, il bambino sta esprimendo un disagio profondo. La sua difficoltà a rapportarsi positivamente con i suoi principali modelli di identificazione è un sintomo di un malessere che, se non affrontato, porterà sicuramente a ulteriori problematiche future, sul piano sia psicologico che comportamentale.
Quando nascono i problemi? Esperimenti, sfide e negoziazioni
I problemi di disciplina e autodisciplina, chiamiamoli così, per quanto sia per certi versi riduttivo, nascono in tenera età, anche se possono emergere con chiarezza solo in seguito, quando il bambino, “entrando in società”, affronta le richieste di nuovi contesti educativi e di socializzazione (scuola, sport, catechismo, ecc) e si trova impreparato perché non ha gli strumenti adeguati.
Fin dalla nascita, il bambino osserva il mondo attorno a lui, alla ricerca delle leggi e delle regole che lo governano. I genitori sono, da questo punto di vista, il primissimo modello di come si fa a comportarsi, parlare, “pensare”, vivere insieme, gestire emozioni e conflitti, e via dicendo.
I neonati fluttuano in una corrente di momenti non integrati (a livello di sensazioni corporee, immagini mentali, ecc) e, nel rapporto con le figure di riferimento, ritrovano se stessi: l’ interezza, l’identità, la costanza nel tempo, le leggi di causa-effetto, il significato delle emozioni, il loro rapporto con ciò che ci accade, l’esistenza stessa dei pensieri e della mente, propria ed altrui.
Il bambino, come un piccolo scienziato, sperimenta la realtà attorno a lui, sia fisica che psicologica, per capire come funziona, quali sono le regole, cosa può aspettarsi se fa così, cosa accadrà se invece fa cosà. Questi esperimenti, crescendo, assumono il sapore della sfida: il bambino di due anni che dice sempre no e fa i capricci sta testando dove può o non può arrivare, cosa gli è permesso, cosa no, fino a dove si può negoziare.
Seppure queste sfide possano risultare estenuanti per un genitore, fanno parte del processo di crescita: più il bambino si percepisce come un’entità separata e autonoma, più comprende la complessità dei rapporti attorno a lui (non solo io e mamma, io e papà, io e nonna, ma anche mamma e papà senza di me, mamma-nonna-io, la maestra e la mamma, ecc), più deve mettere alla prova il suo posto nel mondo, la sua possibilità di decidere per sé, di ottenere ciò che vuole, di influenzare gli altri, ma anche i suoi doveri, cosa ci si aspetta da lui, e via dicendo.
Quella che avviene non è solo una “lotta di potere”, ma un processo di apprendimento circa la propria identità e quella dell’altro, le regole sociali, la gestione del mondo interno, il controllo degli impulsi, la tolleranza alle frustrazioni, la comprensione degli altri, il rispetto dei loro bisogni e desideri, la possibilità di stare bene insieme e negoziare le proprie esigenze, il proprio benessere, insieme agli altri, e non contro gli altri. E qui gioca un ruolo fondamentale come la disciplina, le regole, vengono presentate e imposte al bambino.
Il comportamento dei genitori
Descriverò alcuni “tipi di genitori”, per esigenza di semplificazione, ma nella realtà siamo tutti un po’ l’uno e un po’ l’altro, in momenti diversi o anche nello stesso momento!
Ci sono i genitori “perché lo dico io”, che cercano di assoggettare il bambino con l’autoritarismo, la paura e la minaccia. Non sto parlando di genitori “cattivi” che maltrattano i figli, ma di come si comportano, e soprattutto si sentono dentro, quando si arriva al tema delle regole.
Ogni no, ogni capriccio del bambino, è visto come un attacco personale, una sfida alla loro autorità. La reazione tipica è la rabbia, spesso accompagnata da comportamenti che denotano una perdita dell’autocontrollo (grida sguaiate, minacce, percosse).
Poiché la rabbia è un’emozione sì potentissima, ma che tende presto a sbollire, sarà molto difficile che questi genitori che hanno minacciato mari e monti, o si sono mostrati profondamente offesi da un comportamento magari banale, possano mantenere il punto, così avranno fatto molto rumore per nulla.
Il bambino imparerà diverse cose: che ha molto potere sul genitore, che mamma o papà perdono il controllo facilmente, ma poi passa tutto in cavalleria, che deve camminare sui ceci perché non si sa quando e dove si arrabbieranno di nuovo, essendo spesso le sgridate sproporzionata rispetto ai fatti, ma in relazione piuttosto all’umore dei genitori.
Questo partner educativo, basato sull’autoritarismo più che sull’autorevolezza, cioè sulla forza più che sull’esempio (io posso perché comando, tu invece fai come dico io!), scivola inevitabilmente nell’incoerenza, perché il comportamento sbagliato non è sanzionato a favore del bambino, affinché rifletta sulle implicazioni delle sue azioni e ne comprenda le conseguenze, ma a favore del genitore, perché è risultato sgradito e fastidioso per lui.
Ci sono poi i genitori “lascialo-fare”, che non intervengono mai a mettere una regola e un limite al figlio, se non quando è troppo tardi. Sono genitori che vivono i limiti quasi come una violazione dei diritti del bambino, una limitazione inaccettabile alla sua spontaneità, invece che per quello che sono: la “spina dorsale” della funzionamento psichico.
Anche questa posizione si presta a notevoli incoerenze: il bambino non può fare ciò che vuole, perché nessuno può. In particolare, un bimbo spesso neppure sa cosa vuole. Il genitore allora deciderà per lui, senza assumersene apertamente la responsabilità e privandolo di un’utile lezione, quando se ne presenta l’occasione.
“La caramella non puoi mangiarla, perché sono finite”, “il negozio di giocattoli è chiuso”, “lo ha detto il dottore”, “non si può sennò arriva la polizia”, sono tutti esempi di come un genitore si può nascondere dietro ad un dito e perdere così l’occasione di spiegare il perché di un divieto, mettendo in gioco la propria autorevolezza per farlo rispettare.
I patti inconsapevoli tra genitori e figli
I genitori che non sanno dire di no, spesso, hanno con il figlio un’identificazione eccessivamente narcisistica: lui avrà quello che non ho avuto io, farà ciò che vuole. Al bambino viene fornita un’illusione, che non rispecchia la realtà: è la stessa idea della vita, del mondo, dei rapporti che, purtroppo, viene falsata.
Ogni genitore ha con il figlio un “patto narcisistico”, poiché ogni figlio rappresenta qualcosa per il genitore, ma in questo caso la morsa è eccessiva: il figlio è buono, santo, non deve essere contrariato, non deve mai soffrire. Salvo poi, facilmente, passare da Sua Maestà il Bambino a Tiranno Persecutore, quando i suoi comportamenti fuori controllo si rivoltano contro il genitore, che inizia a percepirsi come il cattivo genitore di un bambino cattivo, piuttosto che il buon genitore di un bambino speciale.
Il problema del patto narcisistico che soffoca, invece che guardare al futuro e alla crescita di una personalità separata ed autonoma, riguarda anche i genitori che pretendono cieca obbedienza, perché un bambino ubbidiente rinforza la loro identità di “bravi genitori”, non scopre le loro fragilità, non fa loro provare emozioni che non sarebbero in grado di tollerare (disappunto, frustrazione, rabbia, ecc).
In poche parole: non è il genitore, che anche attraverso i limiti, dati con affetto e responsabilità, si prende cura del figlio, ma il figlio che, attraverso il suo comportamento irreprensibile, dovrebbe prendersi cura del genitore, farlo sentire bene.
Conto fino a tre …
Un altro aspetto interessante è quello dei premi e delle punizioni. Molti genitori non riescono ad assumere pienamente su di sé la responsabilità del proprio ruolo educativo, perciò delegano in qualche modo a sistemi esterni, più o meno strutturati, il rispetto delle regole. Questi sistemi, generalmente, si basano su premi e punizioni.
Ovviamente, non c’è niente di male nel dare un premio ad un bambino che si è comportato bene ed è più che giusto sanzionare un comportamento sbagliato, in particolare se è intenzionale e significativo. Ma la continua attribuzione di stelline, premi in dolci o giocattoli, punizioni spesso irrilevanti, non esaurisce la funzione educativa genitoriale: l’adulto ci deve mettere la faccia, stare lì, in prima linea, a spiegare chiaramente cosa si aspetta dal bambino, come mai un dato comportamento è sbagliato e quali sono le conseguenze.
La stessa cosa vale per le promesse e le minacce: innanzitutto, il buon comportamento del bambino non deve e non può dipendere dalla promessa di qualcosa o dalla minaccia di qualcos’altro (vedi il discorso su premi e punizioni), perché le regole e i limiti hanno senso solo se vengono condivisi, interiorizzati, cioè fatte propri. In secondo luogo, bisogna evitare come la peste di promettere, nel bene o nel male, cose che non possiamo mantenere: ne va della nostra credibilità, autorevolezza e della fiducia che nostro figlio ha in noi.
Non si promette a vuoto, ma soprattutto non si minaccia a vuoto: non c’è niente di più diseducativo di una punizione “fuoco e fiamme”, data sull’onda della collera, e poi ritrattata, o peggio ancora ritirata, come se niente fosse successo. Da questo punto di vista, è molto meglio essere modesti, e anche più giusti, togliendo la tv per un giorno, che minacciare di toglierla per un mese e il giorno dopo tenerla tutto il giorno accesa sui cartoni “così il bambino sta buono”.
Le nostre regole, la nostra responsabilità
Il genitore deve prendersi la responsabilità di aver messo una regola, perché se alcune regole sono socialmente condivise, e anche legalmente rilevanti (non si passa con il rosso), altre dipendono da casa a casa, da famiglia a famiglia, rispecchiano i nostri valori, le nostre scelte educative, che dobbiamo difendere in prima persona guardano negli occhi i nostri figli (io penso sia giusto perché… e non fallo sennò non viene Babbo Natale, o arrivano i carabinieri).
La relatività delle regole sociali e culturali ci impone anche il compito di far capire ai nostri figli la differenza tra ciò che è sempre sbagliato (picchiare, rubare) e ciò che lo è a seconda delle circostanze, cioè è opportuno o inopportuno (si può saltare sul vecchio divano di casa, ma non si può farlo a casa di altri), e ancora che un’eccezione non è la regola (se oggi hai la febbre e puoi mangiare davanti ai cartoni, non è detto che tu possa farlo sempre). O anche che mamma e papà, su alcune cose, possono pensarla in modo diverso, e le regole in famiglia sono oggetto di negoziazione, cioè di un accordo tra le parti.
In questa apertura e flessibilità non c’è nulla di incoerente, mentre l’incoerenza diseducativa sta nel dire una cosa o un’altra a seconda dell’umore del momento, nell’ipocrisia, nel predicare bene e razzolare male, nelle bugie, nella non chiarezza, nelle abitudini manipolative (fallo per amore di mamma, se fai questo fai soffrire papà), nel cattivo esempio.
Saper dire “no”
Un altra cosa fondamentale, per un genitore, è sapere dire di no serenamente, quando la richiesta è inopportuna: non sta scritto da nessuna parte che dobbiamo farci in quattro per accontentare sempre i nostri figli, di sicuro non è un esempio realistico, perché le altre persone nella loro vita di certo non si affanneranno per rispondere ad ogni loro esigenza.
Si può dire che no, non andremo a comprare l’ennesimo giocattolo, non perché “il giocattolaio è chiuso”, o “non abbiamo con noi i soldi”, ma perché abbiamo a casa già tanti giocattoli, che potremo esaudire la richiesta in un’altra occasione (compleanno, natale, fine della scuola, ecc), che non sempre nella vita si può avere quello che si vuole subito, che bisogna imparare a tollerare l’attesa, o a fare qualche sacrificio.
I genitori che hanno problemi a dire no, spesso, hanno difficoltà loro per primi a tollerare qualcosa: il disappunto sul volto di loro figlio, la sua rabbia, il suo odio (momentaneo). Si sentono “cattivi”, sentono il figlio “cattivo”, dunque vivono un grande disagio nel negare qualcosa al bambino, ma diventano schiavi di questo loro disagio, rendendo il figlio un bambino fragile, che non sa accettare un “no”, quindi non sa fare i conti con la realtà.
Per imporre un no, dobbiamo poter tollerare la rabbia del bambino, accettarla senza farne un dramma, accoglierla, dargli gli strumenti per gestirla, strumenti che un giorno farà propri: dalla distrazione, al gioco, alla coccola, alla sdrammatizzazione, ma senza negazione o svalorizzazione dell’emozione in corso, che deve essere riconosciuta come legittima, per trovare insieme una via d’uscita.
Come ottenere la collaborazione di un bambino?
Innanzitutto cominciando presto: il bambino, sempre nel rispetto delle sue capacità fisiche, psicologiche e sociali, legate all’età, deve poter imparare come funzionano la vita e i rapporti, in modo realistico, non favolistico o sentimentale. Deve sapere come comportarsi, conoscere le conseguenze delle sue azioni, sapere chiaramente cosa ci aspettiamo da lui, cosa può fare e non fare, cosa è pericoloso, cosa è fastidioso, cosa è inopportuno, anche a seconda dei diversi contesti.
Le regole non vanno solo enunciate, ma incarnate: siamo noi l’esempio vivente, non tanto di comportamento (ovviamente non dobbiamo fare noi quello che ci aspettiamo da nostro figlio, perché le regole per adulti e bambini sono diverse), ma di chiarezza, onestà, coerenza, capacità di ascolto e mediazione.
Le regole non servono a nulla se non sono spiegate, condivise, interiorizzate, cioè fatte proprie: sono solo una prevaricazione a cui ribellarsi. L’interiorizzazione delle regole può avvenire solo in un clima di fiducia, dialogo, buon esempio.
Il conflitto, in famiglia, non deve essere vissuto come qualcosa di spaventoso, distruttivo, ma come un momento costruttivo. Dal conflitto nasce la dialettica, il confronto tra posizioni diverse, seppur legittime, l’arte della negoziazione, della persuasione, di cui l’adulto dovrebbe essere maestro, e il bambino allievo fiducioso.
Quando un bambino si ribella troppo alle regole date dalle figure di riferimento, si sta ribellando a qualcosa di profondo: o queste regole sono date con violenza, o con mancanza di riconoscimento delle reali possibilità e capacità del bambino, ad esempio quando i genitori si aspettano troppo o troppo poco da lui, rispetto alla sua età e al suo livello di sviluppo, o con incertezza e senso di colpa, come fossero una castrazione più che uno strumento di crescita.
Troppo spesso, i genitori dicono “no” che vogliono sire “sì”, e “sì” che vogliono dire no, si fanno travolgere dall’umore del momento, dai capricci, apparentemente per stanchezza, ma in fondo perché non hanno chiara la propria posizione e il loro ruolo educativo.
Cedono così allo scontro, concedendo un’apparente vittoria al bambino, che in realtà è una sconfitta, e raggiungendo un’apparente tregua familiare, che è in realtà l’inizio di una guerra senza vincitori. Perché se il capitano di una nave lascia il timone, non c’è membro dell’equipaggio che non debba temere per la sua sorte.
Per informazioni: contatti.
Psicologa Psicoterapeuta Acilia (Ostia, Infernetto, Casal Palocco-Axa) e Corso Trieste, Roma.
Leggi anche: Comprendere e gestire la rabbia e i capricci dei bambini