Dare ai figli ciò che ci è mancato: la sfida dei genitori che hanno avuto un’infanzia difficile
Le difficoltà dei genitori che sono stati bambini trascurati o maltrattati: come comprenderle ed affrontarle, per una vita familiare serena.
Quando diventiamo genitori vogliamo il meglio per i nostri figli, dare loro tutto ciò che ci è mancato, soprattutto se la nostra infanzia è stata difficile ed il rapporto con i nostri genitori non sereno. Queste nobili intenzioni possono essere messe a dura prova dalla realtà della genitorialità, per tutta una serie di meccanismi psicologici che scattano nella persona che non ha guarito le ferite del proprio passato.
In famiglia impariamo ad amare, perché riceviamo calore, attenzioni affettive che aprono la strada agli scambi emotivi con l’altro. Se l’amore che abbiamo sperimentato è stato in qualche modo insoddisfacente, traumatico, o vissuto come tale, le conseguenti ferite possono adombrare e ripercuotersi sula vita affettiva futura.
Le persone che hanno avuto rapporti difficili con i genitori, caratterizzati da trascuratezza o abusi, se non hanno “risolto” le loro esperienze infantili, sono portate a riprodurle, involontariamente, nella nelle nuove relazioni significative, come quella con il partner e, soprattutto, con i figli.
I genitori maltrattanti non sono solo quelli che picchiano o abusano dei figli, parliamo anche dei maltrattamenti psicologici, della trascuratezza, delle cure inadeguate: comportamenti inappropriati all’età, assenza di limiti, freddezza, invadenza o morbosità, aspettative e richieste eccessive, legami basati sulla paura e sul senso di colpa, o sull’inversione di ruolo, cioè quando a livello emotivo, e talvolta anche pratico, è il figlio a doversi prendere cura del genitore, invece che il contrario.
Il problema delle esperienze traumatiche, se non affrontate ed elaborate, è che tendono a riprodursi nel tempo, poiché la mente, attraverso il meccanismo della ripetizione, tenta di affrontare, simbolizzare e “mettere ordine” in ciò che è accaduto.
I vissuti traumatici (paura, impotenza, umiliazione, rabbia) tendono a riattivarsi nei contesti che, in qualche misura, richiamano il trauma originario (ad esempio le relazioni intime) e, quando questo accade, investono violentemente la persona, che perde temporaneamente il contatto con la realtà effettiva di ciò che sta accadendo, sentendosi come se fosse in presenza del suo “aguzzino”, o come se fosse essa stessa l’aguzzino.
Le sofferenze e le insoddisfazioni dell’infanzia si ripetono, in particolar modo, nel proprio ruolo di genitori, perché la relazione genitori-figli riproduce esattamente il contesto traumatico originario, seppur a ruoli invertiti.
La ripetizione delle esperienze traumatiche è allo stesso tempo un tentativo di elaborazione delle stesse e la testimonianza del fallimento di tale elaborazione: la persona, inconsciamente, rimette in scena l’abuso cercando di trovare una “soluzione” alla sofferenza interna ed alla rabbia, ma si ritrova solo ad essere “ri-traumatizzata”, sentendosi per giunta sbagliata, in colpa, senza valore, fuori controllo.
Sotto la pressione di potenti istanze emotive, in particolare nei momenti di vulnerabilità, stanchezza, stress, il genitore può ritrovarsi ad agire con il figlio come il genitore maltrattante faceva con lui (identificazione con l’aggressore) o a proiettare sul figlio le qualità cattive e persecutorie del proprio genitore, sentendosi con lui come si sentiva da bambino con il padre o con la madre (non amato, tiranneggiato, ignorato, umiliato, arrabbiato, cattivo).
L’identificazione con l’aggressore permette alla persona di ri-vivere in modo attivo ciò che un tempo era stata costretta a subire passivamente, di “vendicarsi” su un altro di ciò che ha vissuto, prendendosi anche una rivincita nei confronti del genitore tiranno.
La ripetizione è anche legata al tentativo di riparazione: la persona con ferite così antiche e dolorose si aspetta, nel rapporto con il figlio o con il partner, di ricevere tutto ciò che non ha avuto, colmare i vuoti, guarire le proprie ferite. Queste relazioni dovrebbero essere “perfette”, sempre appaganti, cosa chiaramente impossibile.
In particolare, un figlio non può fare da genitore al proprio genitore, farlo sentire bene, non dargli mai problemi. Sarà stancante, metterà a dura prova la sua pazienza, farà i capricci, avrà delle problematiche, come tutti i bambini.
Cosa succede ad un genitore con queste forti aspettative inconsce di riparazione, quando il figlio non si dimostra “perfetto”? Quando manifesta qualche segnale di disagio, dolore, rabbia? Probabilmente ne verrà travolto, poiché la sofferenza del bambino lo riporta alla propria angoscia infantile non elaborata, che non è capace di contenere ed alleviare.
Non sarà in grado di consolare il figlio, essendo incapace di arginare i propri vissuti d’angoscia, dunque il bambino sarà sempre più incline a manifestare disagio e problematiche. Inoltre il genitore, per difendersi dal dolore di queste interazioni, potrà sviluppare un’ostilità nei confronti del figlio, che alimenterà un circolo vizioso di emozioni e comportamenti negativi, da entrambe le parti.
Il genitore è in una brutta posizione, preso in trappola: è difficile donare ciò che non si ha avuto. Inoltre, più si ritrova a comportarsi come il genitore cattivo, più si identifica con lui. Del resto, tutti abbiamo bisogno, per fare i genitori, di identificarci con delle figure genitoriali. È più facile identificarsi con un genitore cattivo che rimanere senza identificazione. Ripetere un copione doloroso, ma conosciuto, è più facile che sentirsi smarriti nel nulla, senza sapere cosa fare.
Inoltre, il legame tra un figlio e il genitore maltrattante è paradossalmente molto forte: più i legami sono traumatizzanti più sono difficili da spezzare, perché mandano in cortocircuito il sistema dell’attaccamento, l’istinto biologico che porta i piccoli, di fronte ad un pericolo, a ricercare la vicinanza dei propri genitori, per protezione e conforto. I problemi seri iniziano quando è il genitore stesso la fonte del pericolo, perché il bambino sarà portato automaticamente a cercare conforto dal suo carnefice.
Questo cortocircuito fa sì che il legame tra “vittima” e “carnefice” sia particolarmente intenso, denso di emozioni potenti che impediscono una sana separazione. Per questo, molti adulti che hanno subito maltrattamenti durante l’infanzia (fisici o psicologici) possono essere, a un qualche livello, ancora dipendenti dai loro genitori. A testimonianza di tale invischiamento, abbiamo le reazioni di rabbia, la ricerca continua del confronto con l’altro, anche a livello di scontro, il dovergli sempre dimostrare qualcosa, i sensi di colpa, l’odio ed il rancore, che tengono mentalmente vincolati.
L’identificazione con il genitore “cattivo” è un altro modo di mantenere vivo questo legame: ci si continua a lamentare del genitore colpevole, ma non si riesce ad essere genitori migliori, e questo giustifica la perpetrazione del lamento, dell’odio e della dipendenza. È come non poter essere soli con il figlio, senza l’ ombra del proprio genitore.
Esperienze di maltrattamento, trascuratezza o abuso in età infantile, in particolare da parte di quelle figure che avrebbero dovuto amarci e proteggerci, ma purtroppo, per vari motivi, non ne sono stati capaci, lasciano cicatrici profonde, che non si devono però necessariamente ripercuotere su tutta la vita affettiva futura.
Infatti, non è tanto la qualità dell’esperienza infantile (buona o cattiva), ad essere determinante rispetto a come la persona porterà avanti i propri futuri rapporti, e assolverà al proprio ruolo di genitore, quanto lo stato mentale rispetto a quell’esperienza.
Ogni vissuto, per quanto doloroso e traumatico, può essere elaborato, lasciando la persona con uno stato della mente risolto rispetto al trauma. I problemi nascono, invece, quando la mente della persona rimane invischiata, schiacciata dal trauma, oppure quando, per non affrontare il dolore, tenta di negarlo, tenerlo a distanza.
Entrambi gli atteggiamenti, che comportano una mancata elaborazione psichica del trauma, portano ad una situazione per cui i vissuti traumatici, non contenuti sul piano mentale, trasbordano nelle relazioni attuali, con l’attivazione di emozioni e comportamenti “antichi” fuori contesto, trasformando così tali relazioni in una “zona di guerra”, con la devastazione che ne può conseguire.
Se questa è la situazione, la strada migliore è contattare uno psicoterapeuta che ci aiuti a affrontare le ferite del trauma e a riprenderci la nostra vita, recuperando la serenità delle relazioni familiari attuali e ritrovandoci nel nostro ruolo di genitori amorevoli e competenti.
Psicologa Psicoterapeuta Acilia (Ostia, Infernetto, Casal Palocco-Axa) e Corso Trieste, Roma.
Bibliografia
Baldassarre M. (2015), Amori violenti. Cosa significa amare, Alpes, Roma.
Ciccone A. (2019), La psicoanalisi a prova di bambino, Alpes, Roma.