Mi ha lasciato: come sopravvivere alla fine di un amore
La fine di un amore è una delle esperienze più dolorose della vita, paragonabile ad un lutto, con la complicazione che l’oggetto del nostro amore è ancora lì, davanti a noi, ma non ci ama più, ci rifuta. Tutto è cambiato: come è potuto succedere?
È meno crudele non ripetere “ti amo”, quando tu ami.
È terribile dopo, da quelle stesse labbra
sentire un suono vuoto, la menzogna, la beffa, la volgarità
quando il mondo falsamente pieno apparirà falsamente vuoto.
(E.A. Evtusenko)
Lo shock e la ferita
Nel momento in cui diventa chiaro che il partner non prova più gli stessi sentimenti e non siamo più nei suoi progetti futuri, si cade preda di uno shock emotivo.
Bisogna fare i conti con la ferita narcisistica, cioè l’attacco al nostro amor proprio: lui/lei non ci vuole più, mentre noi ancora lo/la desideriamo. Questo mette in crisi, a livello profondo, le nostre certezze, il senso del nostro valore, considerando anche che nella vita di coppia, l’Io entra a far parte di un Noi, investito emotivamente ed idealizzato, che ora non c’è più.
La fine di una storia d’amore decreta la fine di un progetto di vita: attese, aspettative, speranze, un intero orizzonte di vita e di senso che ci collassa addosso, lasciandoci soli a piangere sulle macerie. È difficile pensare, a partire da quelle macerie, di potere e dovere ricostruirsi, ricostruire un futuro, per noi soli.
Il trauma dell’abbandono
Ancora più terribile, a livello psichico, è il trauma dell’abbandono, ferita primitiva e devastante, anche per ragioni biologiche ed evolutive.
Infatti, siamo progettati dalla natura per strutturare legami di attaccamento profondi, che hanno un valore per la nostra stessa sopravvivenza, fisica e psicologica, quindi il cervello è programmato per difenderli ad ogni costo. Pensiamo al primo legame d’amore, quello con il genitore, che tiene in vita il cucciolo d’uomo, dalla nascita attraverso il lungo percorso verso l’autonomia adulta.
Da adulti, nel rapporto con la persona amata, si riattivano aspetti di quel legame di dipendenza. Per questo da innamorati ci si sente “impazzire” e incapaci di vivere senza l’altro. Se un tempo, con i nostri genitori (o con chi si prendeva cura di noi) era davvero così, oggi per fortuna no. È solo la nostra mente “primitiva” che sembra non riconoscere la differenza.
Perché la nostra mente va in cortocircuito
Il sistema dell’attaccamento, che si basa meccanismi neurobiologici e psicologici arcaici, dunque molto potenti, agisce spingendoci a ricercare la vicinanza della figura affettiva di riferimento, in particolare nei momenti di fragilità e bisogno, per essere consolati e rassicurati.
Quando la figura d’attaccamento è causa della nostra infelicità, il sistema va in tilt: siamo spinti, per alleviare il dolore, a ricercare la vicinanza proprio di chi ci procura ulteriore dolore, precipitando in una spirale di sofferenza e dipendenza malsana.
Il cortocircuito del sistema dell’attaccamento rende il legame ancora più difficile da “slegare”, si cade preda di una specie di ossessione: più stiamo male, più abbiamo bisogno che il nostro partner ci consoli, più stiamo male.
L’idealizzazione, la rabbia, la speranza
Di fronte alla rottura di un legame d’amore, si è sotto attacco, dal punto di vista fisiologico, chimico, psichico: l’istinto più primitivo del nostro cervello è quello di “fuggire” o “attaccare”. Fuggire nell’idealizzazione di qualcosa che non c’è (più). Attaccare l’altro, mettendo in atto sentimenti e comportamenti vendicativi.
Abituati a cercare ed aspettarci il conforto del partner, dobbiamo superare questa posizione passiva, “vittimistica”, in cui le domande continuano ad essere le stesse: perché mi fa questo? perché litighiamo sempre per le stesse cose? perché è finita?
Un passo in avanti è iniziare a farsi nuove domande: ad esempio cosa stavo diventando in questo rapporto, come posso imparare a fare questo o quello in modo nuovo, con chi, ecc.
Spesso, quando si viene lasciati, ci si aggrappa alla speranza che le cose possano cambiare, che lui o lei possa tornare da noi e che un rapporto, ormai al capolinea, possa essere recuperato. Ma, parafrasando E. Morante, la speranza, a volte, può indebolire la coscienza più di un vizio, perché ci impedisce di procedere nel percorso dell’accettazione e del distacco.
Ritrovare la libertà
La dipendenza affettiva, il lutto patologico, la rabbia, l’idealizzazione, la speranza, sono tutti modi di rimanere bloccati in sentimenti e pensieri vecchi, in un rapporto con fantasmi, che ci tiene prigionieri.
Questo, come abbiamo visto, ha anche aspetti neurobiologici, relativi al funzionamento del nostro “cervello primitivo”, legato alla sfera istintiva.
La parte più evoluta del nostro cervello, invece, legata alla sfera emotiva, è più malleabile e può rispondere agli apprendimenti, riorganizzandosi in maniera funzionale alla nuova situazione: lo stesso raccontare in maniera guidata il proprio dolore, costruire una nuova narrazione per la propria storia, come si fa nella stanza del terapeuta , aiuta e supporta processo di ristrutturazione, emotiva, cognitiva e cerebrale.
Psicologa Psicoterapeuta Acilia (Ostia, Infernetto, Casal Palocco-Axa) e Corso Trieste, Roma.
Bibliografia
Paris G. (2012), Cuori spezzati. Guarire dalla perdita di un amore, Moretti&Vitali, Bergamo.