Relazioni violente: perché è così difficile uscirne
Ci sono dei meccanismi nei rapporti violenti che rendono difficile uscirne. Per questo molte donne hanno difficoltà a lasciare il partner che le opprime. Come aiutarle senza fare ulteriori danni?
Spesso ci chiediamo come donne adulte e consapevoli possano rimanere intrappolate in relazioni violente e opprimenti. Ogni caso naturalmente è diverso. Parleremo qui della violenza domestica, in condizioni di sottomissione psicologica della vittima al suo carnefice, e di perché sia così difficile uscire da questo tipo di relazioni.
Le ricerche su questo tipo di violenza hanno messo in luce le sue inquietanti somiglianze con la prigionia politica, tanto che i persecutori sembrano aver studiato dallo stesso manuale le raffinate tecniche con cui tengono in scacco le loro vittime. Ciò che è ancora più sconcertante è che questi uomini non si distinguono per particolari turbe psichiatriche, ma sono persone apparentemente normali, spesso dei veri e propri insospettabili.
Vediamo ora le principali dinamiche della prigionia domestica, considerando che ogni storia è diversa e questi aspetti possono essere non tutti presenti, o esserlo in misura sfumata:
Il dominio
Il primo obiettivo del carnefice è il dominio sulla vittima, attraverso l’esercizio di un controllo dispotico su ogni aspetto della sua vita. Non vuole semplicemente l’ubbidienza, ma la sottomissione, il rispetto e perfino la gratitudine. In uno stato di asservimento, il despota diventa la persona più importante per la vittima, la cui mente viene da lui costantemente condizionata e plasmata.
Lo scopo finale è la creazione di una “vittima volontaria”, cosicché il persecutore possa autoassolversi. Tipicamente, le donne partono da concessioni banali, fino a cedere il controllo della propria vita, e talvolta di quella dei figli.
Le tecniche di controllo
I metodi per stabilire il controllo si basano sull’inflizione sistematica di traumi psichici attraverso tecniche di privazione del potere, volte a instillare paura, impotenza e distruggere la coscienza di sé della vittima. Per mantenere l’altro in uno stato di costante paura non è necessario l’uso continuativo della violenza, ma bastano le minacce (alla vittima stessa o ai suoi cari), il rafforzamento arbitrario di regole insignificanti e l’imprevedibilità delle esplosioni di rabbia.
Una tecnica efficace per distruggere il senso di autonomia della vittima è il controllo sul corpo e sui bisogni fisiologici (alimentazione, sonno, abbigliamento). Se la privazione di cibo, sonno o movimento conduce anche a una debilitazione fisica, basta il semplice controllo, in assenza di privazioni, per ottenere una grave debilitazione psichica e demolire il senso di padronanza della donna.
L’isolamento
Questo è l’aspetto più importante e tendenzialmente sempre presente. Finché la vittima mantiene le sue relazioni, il controllo non può essere completo, così l’aguzzino cerca di allontanarla da amici, parenti e qualunque altra fonte di sostegno emotivo o materiale. Più la persona è spaventata e isolata, più si lega al carnefice, che diventa il suo unico punto di riferimento.
Spesso abbiamo una vera e propria rottura delle relazioni, altre volte un loro forte indebolimento, ottenuti manipolando, screditando e mettendo in cattiva luce le persone care alla donna. Il despota può mirare a distruggere anche le immagini interiori dei rapporti, attraverso la privazione di qualunque oggetto, anche simbolico, che testimoni questi legami (foto, ricordi, ecc).
La resa totale
La resa completa si raggiunge quando la vittima è forzata a tradire i propri principi morali e i propri legami. La violazione dei principi può comportare l’umiliazione sessuale, la costrizione a mentire o a partecipare ad attività illegali o considerate immorali. Il tradimento dei legami, oltre all’allontanamento dai propri affetti, talvolta comporta il sacrificio dei bambini. Anche in questo caso, si può iniziare con piccole concessioni, fino a coprire veri e propri abusi fisici e sessuali sui figli.
Il rapporto con il carnefice
La vittima, a causa delle dinamiche sopra descritte, arriva a percepire il suo carnefice come onnipotente. Sentendo che la propria vita è nelle sue mani, mira a ottenere la sua benevolenza attraverso la compiacenza. A questo proposito, la concessione saltuaria di qualche indulgenza mina la resistenza psicologica molto più che una situazione costante di terrore, poiché, in condizioni di deprivazione, il bisogno di un conforto diventa imprescindibile.
Con il controllo completo della vittima, il despota non è più solo una fonte di terrore e umiliazione, ma anche di consolazione, così la donna può sviluppare una paradossale gratitudine verso il suo “salvatore”. L’isolamento, la deprivazione e meccanismi psicologici d’identificazione e idealizzazione la portano a guardare il mondo attraverso gli occhi del suo aguzzino.
La sindrome di Stoccolma
Nelle situazioni di prigionia, l’attaccamento tra ostaggio e carceriere, basato su queste dinamiche psicologiche, è la regola piuttosto che l’eccezione. La prigionia domestica, inoltre, ha delle peculiarità che la rendono ancora più insidiosa: la vittima, infatti, non è imprigionata in modo improvviso e brutale, ma gradualmente, attraverso una sorta di “bombardamento affettivo”, fatto di lusinghe e dichiarazioni d’amore.
Inizialmente, la donna apprezza, o comunque tollera, il corteggiamento insistente e le attenzioni possessive del partner, interpretandoli come segni di un amore appassionato. I suoi tratti autoritari e dominati possono apparirle come segni di forza e trasmetterle sicurezza, così è portata a minimizzare o giustificare i suoi aspetti violenti, che si vanno palesando in modo sempre più chiaro. Nel frattempo, la vittima ha ceduto al partner sempre più controllo sulla sua vita, isolandosi dal resto del mondo.
Perché la vittima non lascia l’oppressore?
Più la donna cade nella ragnatela del carnefice, più diventa difficile per lei prendere le distanze dalla relazione e valutarla con oggettività. Non dobbiamo dimenticare che la vittima non è legata al persecutore solo da un rapporto di violenza e paura, ma anche da affetto e dipendenza. Inoltre, ci sono tutti i vincoli affettivi, sociali ed economici derivanti dall’essere sposati, conviventi o dall’avere dei figli.
La vittima che tenta di fuggire, spesso è persuasa a tornare a casa con richieste di perdono, dichiarazioni d’amore e promesse di cambiamento. Il carnefice tende a responsabilizzarla, facendo appello ai valori dell’unità familiare o dichiarando che ella può far cessare ogni violenza con qualche “prova” del suo amore per lui. Inoltre, fa passare il suo comportamento oppressivo come la dimostrazione del suo disperato amore per lei.
Per un momento, l’equilibrio di potere s’inverte: la donna si sente potente, mentre lui si mostra accondiscendente e sottomesso. In realtà, l’intensità della possessività e del controllo rimane la stessa, e non appena il carnefice riprende il pieno dominio sulla sua vittima, le violenze ricominciano.
Come aiutare le vittime?
Le vittima di violenza domestica tendono a nascondere gli abusi, o a minimizzarli, ma qualora si confidino con qualcuno, o ci siano dei sospetti da parte dell’ambiente, spesso ricevono risposte che purtroppo non le aiutano. Infatti, in buona fede, parenti e amici tendono ad assumere posizioni categoriche, arrivando ad esercitare sulla donna una pressione uguale e contraria a quella dell’oppressore. Più la vittima si sente giudicata, incompresa, prevaricata, più tende a chiudersi in se stessa e isolarsi, aggrappandosi ancora di più al carnefice.
Quello che può fare chi le vuole bene, per quanto sbigottito, angosciato o perfino irritato dalla situazione, è starle vicino, ascoltarla senza imporre il proprio punto di vista, supportarla, provare a ragionare insieme, offrire il proprio aiuto concreto qualora decida di fare dei passi per liberarsi.
L’aiuto specialistico
A causa della complessità di queste situazioni, sono spesso necessari percorsi d’intervento mirati, che prevedano il coinvolgimento di più figure professionali. Un primo passo può essere rivolgersi a un centro antiviolenza, dove si riceveranno informazioni e un supporto immediato.
Poiché la violenza priva la vittima innanzitutto del controllo sulla propria vita, ogni tipo d’intervento deve mirare, oltre a proteggere l’incolumità fisica della donna, a restituirle il potere che le è stato tolto, rispettando la sua volontà e rinforzando la sua possibilità di scelta, senza mai sostituirsi a lei nelle decisioni.
Dal punto di vista terapeutico, deve innanzitutto svilupparsi un rapporto di fiducia con il clinico e un’alleanza. Alla donna saranno fornite informazioni complete sulle dinamiche della violenza e della vittimizzazione e sulla sintomatologia post traumatica. La terapia rappresenterà per lei un luogo sicuro in cui parlare di se stessa, delle proprie emozioni, e anche dell’eventuale ambivalenza tra il desiderio di uscire dalla relazione violenta e quello di mantenere i rapporti con il carnefice, senza essere mai giudicata.
La persona ha bisogno di riflettere sulla propria storia, sulla situazione attuale, ed essere aiutata a prendere decisioni consapevoli e a sviluppare strategie attive per riorganizzare e gestire la propria vita.
Psicologa Psicoterapeuta Acilia (Ostia, Infernetto, Casal Palocco-Axa) e Corso Trieste, Roma.
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Bibliografia
Herman J.L. (2005), Guarire dal trauma, Edizioni Magi, Roma.