Perché lo psicoterapeuta non è un guru
Ecco perché il terapeuta psicoanalitico ama le domande e diffida dei consigli
Se incontri il Buddha per la strada uccidilo.
(S.B. Kopp)
Spesso i pazienti che arrivano in terapia ci chiedono consigli su cosa fare o come gestire una determinata situazione. Ci domandano come comportarsi con una persona cara, come uscire da una impasse lavorativa, come risolvere un problema di cuore. Questa richiesta, assolutamente comprensibile, deriva però da un equivoco di fondo.
I consigli ci aiutano o ci danneggiano?
In generale, si chiedono consigli solo per non seguirli o, se si seguono, è per avere qualcuno da rimproverare per averli dati.
(A. Dumas)
Da che mondo è mondo, ogni persona in difficoltà viene ricoperta da una valanga di consigli, anche non richiesti, provenienti da chiunque: la mamma, l’amico, la vicina di casa, perfino il panettiere o il meccanico. La storia dell’umanità (e della letteratura) è stracolma di consigli ignorati o disattesi, con tutte le conseguenze del caso. Tra tutti i consigli, più o meno validi, che abbiamo ricevuto nella nostra vita, sicuramente qualcuno avrà fatto al caso nostro. Ma o non lo abbiamo seguito, o non ne abbiamo tratto grandi benefici. Molto spesso, noi per primi sappiamo darci ottimi consigli, ma poi non riusciamo a seguirli (proprio come diceva Alice nel Paese delle Meraviglie in una triste canzoncina).
Purtroppo, tra il dire e il fare, c’è di mezzo il mare. Ma in che cosa consiste, esattamente, questo mare? Sicuramente è fatto di diverse cose, tra cui molte nascoste: emozioni, pensieri latenti, paure, convinzioni implicite, processi inconsci: tutto ciò che vive in noi, ma non siamo capaci di pensare.
Ma il terapeuta non è un esperto?
Si danno i consigli ma non si dà la saggezza di seguirli.
(F. de La Rochefoucauld)
Il terapeuta conosce lo sviluppo psichico, il funzionamento mentale e le dinamiche relazionali tanto da sapere che, di fronte ad un altro essere umano, non si può essere semplicistici o approssimativi.
Il terapeuta psicoanalitico evita di dare banali consigli. Nel migliore dei casi, saranno semplicemente cestinati. Nel peggiore, soprattutto provenendo da un “esperto”, faranno sentire la persona ancora più sbagliata: perché non è in grado di seguirli?
Allora, cosa può fare il paziente, deluso nella sua aspettativa di ricevere una “soluzione magica”? Rimboccarsi le maniche e cercare di capire, insieme al terapeuta, la vera natura del problema, mettendo prima in pensieri, poi in parole (e viceversa), quello che agisce dentro di lui, ma ancora non ha trovato la possibilità di essere rappresentato a livello mentale.
Chi è troppo sicuro, non è al sicuro
Tutti gli uomini sanno dare consigli e conforto al dolore che non provano.
(W. Shakespeare)
La vita è piena di esperti e predicatori sicuri di avere la ricetta giusta per i nostri problemi e desiderosi di “vendercela”, in cambio di soldi o spesso di altro: ammirazione, gratitudine, dipendenza. Non sto parlando di maghi e santoni, ma di genitori, insegnanti, medici, amici, perfino psicologi e terapeuti, spesso in buonissima fede. Non è chiaro come facciano a essere così sicuri di quello che noi dovremmo fare della nostra vita, di cosa sia un bene o un male per noi. È molto più facile, invece, immaginare perché una persona in difficoltà possa rivolgersi a qualche “guru” dalla soluzione facile: nei momenti di sconforto, tutti abbiamo bisogno di un appoggio, di un aiuto, di sentirci capiti e sostenuti. Invece, troviamo un’implicita svalutazione di noi stessi, perché chi ci dice “fai così”, più o meno velatamente, ci sta dando degli idioti per non aver trovato da soli una così ovvia soluzione. Ma se fosse stato tanto semplice, lo avremmo già fatto, no?
Attenzione: non mi riferisco a amici e parenti che cercano genuinamente di aiutarci, dandoci il loro punto di vista, ma di chi si pone come un’autorità indiscussa, tanto più bravo e più capace di noi, mentre evidentemente non capisce molto della complessità dei problemi umani. Naturalmente, non mi riferisco neppure ai colleghi che, all’interno di un valido orizzonte teorico, utilizzano in terapia la ristrutturazione cognitiva o le prescrizioni, sempre nel rispetto dell’autonomia e della libertà del cliente. Sto parlando di un atteggiamento di fondo, di superiorità e controllo, che chiunque può finire suo malgrado con l’adottare, anche (e forse soprattutto) uno specialista della salute mentale.
Il mito del “pensare fa male”
I sintomi e i comportamenti disattivi nascono sempre dai “buchi del pensiero”. Ma cosa vuol dire questo? La mente origina da un’assenza: al posto di “qualcosa” che non c’è, crea un pensiero, una rappresentazione interiore di quella cosa. Il pensiero è dunque una ricostruzione interna della realtà. Cosa accade, al contrario, quando qualcosa, dentro o fuori di noi, non può essere pensato? Succede che la mente, al posto di quell’idea, mette qualcos’altro: un sintomo.
I sintomi sono i fantasmi della mente, ma sono spettri molto reali, perché incarnati in pensieri e comportamenti apparentemente ingestibili, che creano sofferenza e problemi. Meno si pensa, più si agisce, e non in senso positivo, perché parliamo di azioni inconsapevoli e fuori controllo.
Alcune persone vengono in terapia affermando di “pensare troppo”, ma a ben vedere, il problema è che non stanno realmente pensando. La loro attività mentale ha poco a che fare con i ragionamenti e più con ruminazioni mentali e pensieri ossessivi, che non sono altro che una difesa contro il pensiero.
La terapia non incoraggia tic mentali o speculazioni intellettuali, ma un tipo di pensiero diverso, che apre lo spazio psichico, crea legami, connessioni e ponti da attraversare. Stiamo parlando del pensiero simbolico, della mentalizzazione.
Il pensiero è il nostro alleato
Mentalizzare significa riconoscere e ragionare sugli stati mentali, in noi stessi e negli altri: desideri, intenzioni, emozioni, pensieri, credenze, ecc. Questa funzione psichica è studiata anche dalle neuroscienze, che ne hanno indagato i correlati fisiologici e biochimici. Certamente è la base dell’autoconsapevolezza, dell’autocontrollo, ma anche dell’empatia e delle capacità relazionali. Pensare, in termini di mentalizzazione, significa utilizzare appieno quella potenzialità che distingue gli esseri umani dagli altri animali, ossia la capacità simbolica e narrativa. La mentalizzazione ha il potere di organizzare tutti i nostri incoerenti vissuti, sia fisici che emotivi, metabolizzarli e trasformarli in elementi della nostra esperienza, ordinati e dotati di senso. Grazie a questo processo, gli elementi grezzi, potenziali “schegge impazzite”, sono trasformati in elementi pensabili, nuove risorse e materiali per le attività coscienti.
Questo è il processo che ci porta, prima, a saper decidere, e poi, a fare ciò che abbiamo deciso. Purtroppo, non ci sono scorciatoie: chiedere istruzioni vuol dire renderci ancora una volta impotenti, incapaci di fare ciò che ci viene tanto saggiamente suggerito. Oppure capaci di farlo, ma comunque infelici, perché non era quella la soluzione al nostro problema. Significa delegare la nostra vita, nella dimensione più importante che l’uomo conosca: la scelta. Che senso ha mettere la nostra esistenza di adulti nelle mani di un’autorità esterna? Chi potrà mai vivere al posto nostro?
Una domanda vale più di mille consigli
Dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno, insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita.
(Proverbio cinese)
Quando diamo un consiglio a qualcuno, stiamo pensando al posto suo, quando gli facciamo una domanda, stiamo ragionando insieme, stiamo “allenando” il pensiero. Questo allenamento, questa possibilità, è tanto cruciale per la vita umana quanto è trascurata, a livello personale, culturale e sociale. Se siamo stati così fortunati da avere genitori che, attraverso la loro capacità di mentalizzazione, ci hanno “insegnato” ad utilizzarla, bene, altrimenti rischiamo di rimanere psichicamente “menomati”. Nella società contemporanea, la terapia è l’unico luogo in cui questa potenzialità è esplicitamente oggetto di interesse e lavoro.
Il nostro scopo, come terapeuti, è allargare la mente dei nostri pazienti: abbiamo visto che dove c’è un sintomo, c’è un buco del pensiero, ma questo non deve essere tappato dalle parole e dai consigli dell’analista, perché sarebbe solo un provvisorio rimpiazzo. Una domanda apre lo spazio psichico, un consiglio, all’opposto, lo chiude: la soluzione è quella, data una volta per tutte, non c’è più niente da discutere.
Buoni consigli e cattivi esempi
Nulla produce nella mente dell’uomo un’impressione più profonda dell’esempio.
(J. Locke)
Data la natura del lavoro terapeutico, è importante che il terapeuta, più che fornire buoni consigli, si premuri di non dare il cattivo esempio: spesso l’emotività, l’ansia e le pressioni psicologiche dei nostri pazienti possono portarci ad agire, invece di pensare. Parlare troppo, prevaricare il paziente, comportarsi in modo non professionale, sono tutti esempi di “agiti” del terapeuta. Ascoltare è infinitamente più difficile che parlare. Se abbiamo davanti un terapeuta che in silenzio ci ascolta e riflette, sopportando i forti vissuti emotivi che caratterizzano la seduta e contenendoli dentro di sé, anche per noi, ci sono già le basi per fare un buon lavoro insieme.
Bisogna evitare anche un’altra pericolosa illusione, che strangola molti rapporti umani, professionali e privati: “io ti salverò“, si chiama questa trappola. Quando un terapeuta collude con il desiderio del paziente di idealizzarlo, presentandosi come un saggio o un sacerdote che lo salverà da tutti i suoi mali, lo schianto che farà appena cadrà dal piedistallo lo sentiranno anche i colleghi di Kathmandu!
Anche il terapeuta è umano!
Se bastassero buoni consigli, pacche sulle spalle ed un generico supporto, gli analisti di tutto il mondo avrebbero già smontato baracca e burattini. Invece, la terapia psicodinamica è viva e vegeta, universalmente riconosciuta come un trattamento efficace per la patologia psichica ed il disagio emotivo e relazionale, nel nostro paese erogata anche dal Servizio Pubblico e detraibile come spesa sanitaria.
Ogni terapeuta è un essere umano: può dire una parola di troppo, fraintendere, non cogliere il punto, scoprirsi in tutta la sua umana vulnerabilità. Proprio per questo è importante che sia onesto, soprattutto con se stesso, non pretenda di essere superiore al paziente e di impartirgli inutili lezioni di vita.
Psicologa Psicoterapeuta Acilia (Ostia, Infernetto, Casal Palocco-Axa) e Corso Trieste, Roma.